Milano, 23 maggio 2013 – «Negli Stati Uniti la democrazia potrebbe quasi essere considerata una forza “antiliberale”», così David Garland, criminologo e sociologo della New York University, ha concluso il suo seguitissimo intervento all’Università di Milano-Bicocca dove questo pomeriggio ha presentato il suo ultimo libro "La pena di morte in America. Un’anomalia nell’era dell’abolizionismo”.
L’incontro, moderato da Adolfo Ceretti, docente di Criminologia nell’Ateneo milanese, è stato organizzato dal Dipartimento dei Sistemi Giuridici e dal Dipartimento delle Scienze Giuridiche Nazionali e Internazionali in cooperazione con la Fondazione Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale e l’Osservatorio Giordano Dell’Amore sui rapporti tra diritto ed economia.
«La pena di morte in America è da considerarsi un’anomalia nell’era del proibizionismo – continua Garland - analizzarla significa affrontare non una questione morale, politica o legislativa, ma un tema sociologico, da studiare nel suo complesso, evitandone le banalizzazioni». Il professor Garland ha dedicato quindi la sua analisi alla descrizione delle traiettorie storiche, politiche e sociologiche che sostengono ancora oggi negli Stati Uniti l’istituto della pena capitale, e ha considerato alcuni fattori come determinanti del suo mantenimento attuale, primo tra tutti il fenomeno della pena gestito a livello di governo locale e non nazionale, il che significa attribuire a una giuria popolare di dodici membri la facoltà di condannare o meno un uomo alla pena capitale. Inoltre, i procuratori distrettuali sono eletti, ricoprono un ruolo politico molto forte, e anche a causa della frequenza delle elezioni (ogni due anni), tendono a non prendere decisioni eccessivamente impopolari.
In seconda battuta il ruolo degli Stati membri: in tutti i Paesi europei la pena di morte è stata abolita a livello nazionale, mentre negli Usa è stata ratificata dai singoli stati. L’unico organo istituzionale a detenere il potere di abolire una legge a livello nazionale èla CorteSuprema, che tende però a sostenere e a far prevalere la volontà e le decisioni della collettività locale, pur nel rispetto della logica processuale.
E infine, ha sottolineato Garland, si può considerare che lo stato americano non si è completamente slegato dalla sua storia di violenza (la schiavitù, la frontiera…) e non è stato in grado di mantenere appieno l’ordine tra la popolazione, con conseguenti alti tassi di omicidi e alti livelli di violenza.
Alla presentazione del saggio di Garland (edito in Italia da Il Saggiatore) hanno partecipato Eva Cantarella, Docente di Diritto romano e Diritto greco nell’Università di Milano, Loredana Garlati, Docente di Storia del diritto medievale e moderno nell’Università degli Studi di Milano-Bicocca ed Eligio Resta, Docente di Filosofia e Sociologia del diritto nell’Università degli Studi di Roma Tre.