Milano, 26 agosto 2008 - Alcuni ricercatori dell'Università di Milano - Bicocca e dell'Università di Oxford hanno scoperto che non risiede solo nella mente l'illusione che fa credere alle persone che un finto arto di gomma appartenga al proprio corpo.
E' stato infatti osservata una risposta fisiologica a tale illusione, una scoperta che ha importanti conseguenze per disturbi che riguardano il senso di se stessi e la consapevolezza del proprio corpo, quali quelli conseguenti a danno cerebrale, schizofrenia, autismo e disturbi alimentari.
L'illusione dell'arto di gomma (rubber hand illusion) si produce posizionando un arto finto davanti ai soggetti, in una posizione compatibile con quella del proprio arto. L'arto reale è invece nascosto dietro una barriera. Se la mano reale e quella di gomma sono toccate o accarezzate nello stesso modo e allo stesso tempo, i soggetti iniziano a coordinare quello che i loro occhi vedono (l'arto di gomma che viene accarezzato) e quello che la mano sente (la loro mano che viene accarezzata). Essi possono quindi percepire uno spostamento della posizione in cui ritengono sia la loro mano nella direzione della mano artificiale.
«Molti soggetti iniziano ad avere la sensazione - dice Alberto Gallace, ricercatore presso il Dipartimento di Psicologia dell'Università degli Studi di Milano Bicocca - che l'arto di gomma appartenga loro, che sia parte del proprio corpo».
Lorimer Moseley e Charles Spence, ricercatori dell'Università di Oxford, insieme ad Alberto Gallace e altri collaboratori dell'Università di Leiden, hanno scoperto che questa "aggiunta" dell'arto artificiale comporta una risposta in termini fisiologici. Il perdere il senso che la propria mano reale sia parte del proprio corpo (una volta che l'arto di gomma inizia a essere percepito come parte integrante di questo) produce un calo di temperatura nella mano reale.
Il senso di appartenenza del proprio corpo è un aspetto importante della propria autoconsapevolezza, la sensazione che il proprio corpo ci appartenga è sempre presente nella nostra mente. Questo senso di appartenenza può venire meno in un vasto insieme di disturbi neurologici, psichiatrici e psicologici così come l'infarto cerebrale, la sindrome da dolore cronico localizzata, l'autismo, l'epilessia, la bulimia e l'anoressia. I pazienti affetti da questi disturbi possono riportare la sensazione che una certa parte del proprio corpo non gli appartenga più o sia di dimensioni diverse da quelle effettive. Molti di questi disturbi si associano inoltre con un calo della temperatura in un lato del corpo o in un singolo arto. «Volevamo studiare - dice Lorimer Moseley - se in qualche modo fosse possibile replicare alcuni di questi fenomeni. Volevamo anche vedere se una manipolazione dell' appartenenza e consapevolezza del proprio corpo potesse riprodurre un regolazione deficitaria della temperatura. Questo è esattamente quello che abbiamo osservato».
«Il nostro senso di sé si sviluppa a partire dalla nascita - dice Alberto Gallace - e molto verosimilmente anche prima, durante la gestazione. Questo avviene mediante i segnali (tattili, visivi, chinestetici etc.) che dalle varie parti del corpo raggiungono il cervello e li vengono integrati. I nostri risultati dimostrano che questo processo è a doppio senso, cioè la nostra mente può influenzare quello che succede a livello dei tessuti corporei. La nostra mente può quindi controllare una specifica parte del nostro corpo».
I risultati di questa ricerca aprono dunque interessanti prospettive nella conoscenza dei meccanismi attraverso i quali si forma la consapevolezza del proprio corpo. Questo non solo è importante per il trattamento di quei disturbi dove tale consapevolezza viene meno o è alterata ma anche per lo sviluppo di nuove tecnologie di realtà virtuale. «E' possibile integrare un arto o anche un intero corpo virtuale nella rappresentazione mentale di se stessi? E questo che conseguenze ha a livello fisiologico per il corpo reale? Queste sono alcune delle domande che i ricercatori dovranno porsi in un prossimo futuro» sostiene Alberto Gallace.
La ricerca è stata pubblicata su Proceedings of the National Academy of Sciences USA http://www.pnas.org/content/early/recent